Correva l’anno 1985 e, a giugno, la rivista National Geographic pubblicava quella che sarebbe presto diventata la sua copertina più famosa. Una fotografia per ritrarre la sofferenza e la fierezza del popolo afghano scattata da Steve McCurry, una fotografia che oggi è fra le più famose e apprezzate al mondo. Così una ragazza, poco più che bambina, con gli occhi color smeraldo e uno scialle rosso hanno saputo catturare lo sguardo del mondo. Ma chi è la “ragazza afghana” – questo il semplice titolo della foto – che tutti sembrano riconoscere a colpo d’occhio quando lo scatto viene stampato su giornali, pubblicità e magliette?
Il suo nome è Sharbat Gula, simbolo dell’Afghanistan degli anni ’80, è la ragazza per cui McCurry dichiara ancora oggi: ” Quando ho cominciato a fotografare Gula, non ho sentito e visto più nient’altro. Mi ha preso completamente”. Il fotografo si trovava, su incarico di National Geographic , nei campi profughi sorti tra Pakistan e Afghanistan, luoghi dove si stava riversando una massa crescente di rifugiati.Erano i tempi della guerra civile tra gli insorti afghani e il governo filosovietico di Kabul, tempi di guerra vera e propria, che costringevano molte famiglie a cercare rifugio lontano dalla propria casa.
È proprio in uno di questi campi per rifugiati, quello di Nasir Bagh, che McCurry ha incontrato Gula. Durante una passeggiata il fotografo sente delle voci giovanili provenire da una tenda e, incuriosendosi, si avvicina. Scopre ben presto che si tratta di una scuola femminile – improvvisata in una fredda tenda del campo – e chiede all’insegnante di poter scattare alcune foto. Dice McCurry di quell’episodio:”Mi accorsi subito di quella ragazzina, chiamata, come seppi anni dopo, Sharbat Gula. Aveva un’espressione intensa, tormentata e uno sguardo incredibilmente penetrante, sebbene avesse solo 12 anni”. Un amore a prima vista, si potrebbe dire. A McCurry piace incontrare i suoi soggetti vis-à-vis, a distanza ravvicinata, in modo da stabilire con loro un contatto ed è quello che ha fatto anche trent’anni fa con la ragazza afghana. Le si è avvicinato piano, prima fotografando le altre per tranquillizzarla e poi chiedendole il permesso di ritrarre anche lei. Ricorda il fotografo: “Suppongo che fosse incuriosita da me quanto io lo ero da lei, poiché non era mai stata fotografata prima e probabilmente non aveva mai visto una macchina fotografica. Dopo qualche minuto si alzò e si allontanò, ma per un istante tutto era stato perfetto, la luce, lo sfondo, l’espressione dei suoi occhi”.
La grandiosità dell’immagine: gli occhi smeraldo della ragazza si sposano perfettamente con la parete verde dietro di lei, così come con il rosso intenso del suo scialle che, bucato, lascia intravedere il verde della veste sottostante. Un insieme magnifico, irripetibile. E pensare che lo scatto di Gula che tutti conosciamo non è quello scelto inizialmete da McCurry. Per fortuna nei giornali ci sono editor come Bill Garret, che allora dirigeva la rivista, che controllano sempre le “seconde scelte” e, come in questo caso, le sostituiscono con le prime. Qui l’immagine selezionata inizialmente da McCurry, oggi diventata ormai quasi altrettanto famosa
La vera particolarità di questa storia, arriva alla fine, un lieto fine. McCurry, intento a scattare il ritratto che gli avrebbe cambiato la vita, non ebbe infatti tempo di chiedere chi fosse quella bambina dagli occhi magnetici. L’ha scoperto solo diciannove anni dopo. Accompagnato da una troupe della National Geographic Television, è tornato in alcuni dei campi che aveva fotografato nel 1984 con lo scopo di rintracciare “La ragazza afghana”. Ha mostrato foto agli anziani delle tribù e alle autorità del campo e a centinaia sono state le donne che si sono presentate dicendo di essere quella che il fotografo cercava, ma mentivano tutte. McCurry ricordava infatti perfettamente il naso dritto di Gula con una piccola cicatrice che non ritrovava in nessuna delle donne che gli si presentavano.Quando la speranza stava per venire meno ecco l’inaspettato: un uomo si era presentato alla troupe dicendo di conoscere il fratello della ragazza e sostenendo che lei vivesse con lui nelle grotte dell’Afghanistan più pericoloso in quel momento, era li che gli americani stavano bombardando. L’11 settembre 2001 era infatti passato solo da un anno e la guerra imperversava sulle montagne dell’Afghanistan. Questa volta era la vera Gula, quando neanche il fotografo ci sperava più. La ormai trentenne “ragazza”, avvisata che McCurry la stava cercando, aveva intrapreso, con suo marito e i suoi 3 figli, un pericoloso viaggio di 10 ore per incontrare l’uomo che quasi vent’anni prima l’aveva stregata con la sua macchina fotografica. Quella che McCurry si è trovata davanti, in un breve incontro in una stanzetta in penombra, nel 2002 è una Gula completamente diversa da quella che tutti conoscono, dalla Gula dodicenne. È una donna invecchiata precocemente per la dura vita sostenuta, una donna sposata, che indossa il velo e bada ai suoi bambini. I lineamenti del volto sono più duri, marcati. L’innocenza è sparita. Qui una foto di Gula nel 2002
“Riviste, giornali, televisione non appartenevano al suo mondo. I suoi genitori erano stati uccisi e lei aveva vissuto una vita da reclusa; non aveva contatti con altre persone al di fuori del marito e dei figli. Le sue reazioni mi sembrarono un misto di indifferenza e imbarazzo, con un pizzico di curiosità o di sconcerto”. Così ricorda il fotografo riguardo al dialogo avuto con Gula. Non capiva, o non le interessava quasi, che il suo volto di adolescente fosse diventato un simbolo. Questo non ha fermato però le intenzioni di McCurry che, dal ritrovamento in avanti, si è impegnato ad aiutare la donna in modo che lei, il marito e i tre figli ricevessero cure mediche adeguate e potessero concretizzare il loro sogno di andare il pellegrinaggio alla Mecca. “Mi è sembrata inoltre un’occasione per sensibilizzare il pubblico e convincerlo a sostenere la popolazione di quei territori” ha detto il fotografo e si è impegnato a raccogliere fondi per offrire aiuto alle bambine afghane. Ne è nato, nel 2008, un progetto dal nome Afghan Children’s Fund.
Perché è anche questo il senso del fotografare: rappresentare, attraverso le vite degli altri, questioni di portata universale che ci parlino della condizione umana in tutte le sue sfaccettature.