LUNEDÌ 29/02 – And the Oscar goes to…

Los Angeles, Dolby Theatre, cerimonia degli Oscar 2016. Leonardo DiCaprio vince la statuetta come miglior attore protagonista con il film The Revenant.

Los Angeles, Dolby Theatre, cerimonia degli Oscar 2016. Leonardo DiCaprio vince la statuetta come miglior attore protagonista con il film The Revenant.

La notte degli Oscar 2016 è la notte di Leonardo DiCaprio. Finalmente, ventidue anni dopo la sua prima candidatura, per Buon Compleanno Mr. Grape, il divo più divo di Hollywood, ce l’ha fatta: ha vinto la statuetta come miglior attore protagonista del film The Reventant.

Il Dolby Theater di Los Angeles è esploso in un applauso immenso quando Leo è salito sul palco. Poi la standing ovation e i ringraziamenti. L’attore ha ringraziato il “fratello” Tom Hardy, il regista Iñarritu (miglior regia, per il secondo anno di fila, nel 2015 aveva vinto con Birdman) e il genio cinematografico Martin Scorsese che gli ha “insegnato l’arte del cinema”. Un grazie anche a genitori e agli amici, per poi lanciarsi in un lungo discorso sul cambiamento climatico e sull’ambiente, tematiche che a Leo stanno molto a cuore, anche quando vince un Oscar.

Da giorni, sul web, impazzavano le gif e le immagini scherzose di Leo pronto a vincere l’Oscar, dopo tante nomination e mai una vittoria. Ma il 28 febbraio, la maledizione del “mai premiato” si è infranta e i complimenti sono arrivati da tutto il mondo del cinema, avversari compresi.

Le soddisfazioni, ieri notte, non sono state solo per DiCaprio. Ha vinto, come migliore attrice protagonista, Brie Larson, per il film Room. Spotlight, invece, ha trionfato come migliore pellicola grazie alla meravigliosa regia di Tom McCarthy. Il film racconta la storia del team investigativo del Boston Globe che nel 2002 smascherò una rete di 90 preti pedofili a Boston. Alicia Vikander, si aggiudica la statuetta come miglior attrice non protagonista, in The Danish Girl. Incetta di premi anche per Mad Max: Fury Road. La pellicola porta a casa sei statuette: migliore scenografia, costumi, trucco e acconciature, montaggio e montaggio sonoro, sonoro.

Grandi soddisfazioni anche per l’Italia grazie al compositore Ennio Morricone che vince con la colonna sonora del film di Quentin Trantino The Hateful Eight. Lui, sul palco, si commuove e la voce si rompe per l’emozione sul finale del suo discorso. Un grazie? Sì, a sua moglie.

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Fra applausi, risate e soddisfazioni non è mancata però la polemica. Questa 88esima edizione degli Oscar è stata criticata per avere come candidati alle statuette solo attori bianchi. Non a caso è nato un hashtag per parlare della questione. E da giorni impazzava sui social, su Twitter prima di tutto: #OscarSoWhite. Il presentatore della cerimonia però, era di colore, quasi a compensare. Si tratta del comico Chris Rock che ha inaugurato la serata con la frase, polemica: “Ho incontrato almeno 15 persone nere in quel montaggio!”. A riscattare l’orgoglio nero, ci ha pensato anche Morgan Freeman che è stato scelto come presentatore della pellicola dell’anno. Un gigante che premia i nuovi talenti e ricorda che il colore della pelle non conta.

A chiudere la serata, un appello, ma non sulla questione razziale. Il messaggio arriva dal cast di Spotlight e viaggia veloce verso il Papa. Attori e produttori si augurano che «i sopravvissuti a cui il film ha dato voce formino un coro che arrivi fino al Vaticano».

Il vecchio pescatore che incanta il web

  
Shan Huang è uno di quegli artisti che quando posta le sue foto su Instagram, sotto ci scrive:”spero che vi piaccia”, “spero che vi faccia divertire”. E con questi scatti, il fotografo ci è decisamente riuscito. Le immagini, in breve, hanno iniziato a raccogliere migliaia di like e a diventare popolarissime sul social network di foto.

Grande parte del merito di questo successo va all’unicità del soggetto: un vecchio pescatore cinese. Le rughe gli solcano il viso ma si distingue comunque il suo vivace sorriso. Le ossa sono fragili, ma lui se ne sta comunque in equilibrio, saldo sulle gambe quasi centenarie con gli amici pennuti in bilico sulle sue spalle. Pesca di giorno e di notte, con l’aiuto dei cormorani. È il baluardo di un mestiere antico che scorre sulle rive di uno dei fiumi più antichi della Cina. Che porta avanti la tradizione con l’aiuto della natura. E che seduce ancora, anche quando diventa “mainstream”, alla portata di tutti. Lo si ammira sa uno schermo di un iPhone o di un Ipad, ma lui conserva la sua unicità, immutato nel tempo.

   
   

GIOVEDÌ 25/02

Cosa resta del villaggio di Talecake, nelle isole Fiji, dopo il ciclone Winston.

Cosa resta del villaggio di Talecake, nelle isole Fiji, dopo il ciclone Winston.

I morti sono 42. Le persone che sono ancora negli alloggi temporanei, 8.500. Per stimare i danni, occorreranno giorni. Per ripararli, milioni e milioni di dollari. Lascia distruzione e sgomento dietro di sé il ciclone Winston che ha imperversato sulle isole Fiji nei giorni scorsi. Le case qui sono costruite con lamiere, legno e fango. Non sono pronte per fronteggiare la furia del maltempo. Così, in pochi secondi, la forza del ciclone ha spazzato via tutto.

Il governo ha dichiarato lo stato di calamità naturale. La priorità però è una sola: recuperare i dispersi e tutte le persone che sono rimaste isolate e bloccate da acqua e fango. “Ci rendiamo conto della situazione disperata, di quanto sia traumatico questo per voi e le vostre famiglie”, ha detto il primo minstro Voreqe Bainimarama rivolgendosi agli abitanti. E ha poi aggiunto: “Ma come primo ministro, voglio che si sappia che non ci sarà pace fino a quando vi avremo raggiunto”.

La curiosità della settimana – Al MoMa un corso di fotografia online…gratis

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Un’opportunità unica: imparare qualcosa in più sulla fotografia in un tempio dell’arte, il MoMa. E, per di più, gratis, seduti davanti al pc. È l’idea di Sarah Meister, la direttrice dell’area fotografica del celebre museo che ha ideato un corso online di 6 settimane per sensibilizzare il pubblico sugli oltre 180 anni di storia della fotografia e su come spesso si sbagli prospettiva nell’osservare – e nel realizzare – gli scatti.

Niente selfie, e neppure bocche da papera. Scordatevi le immagini dei vostri piatti al ristorante. Il MoMa insegna come realizzare scatti da professionisti, per un documentario, a realizzare ritratti, a raccontare storie con le immagini. Il tutto si conclude con un assignment (un compito) finale, dove gli allievi dovranno dimostrare di aver appreso, anche se a distanza, le basi che il corso ha fornito.

Non ci sono ritmi serrati, ma scadenze “consigliate” per far si che gli alunni non rimangano troppo indietro o lascino il corso a metà. Alla fine, il MoMa rilascerà un certificato che attesta che l’allievo abbia partecipato. Non rimane altro che…provare!

LUNEDÌ 22/02

"Ho sbagliato outfit", questo il commento della candidata democratica alla Casa Bianca Hillary Clinton, alla foto pubblicata sul suo profilo Instagram durante le primarie nello stato del Nevada.

“Ho sbagliato outfit”, questo il commento della candidata democratica alla Casa Bianca Hillary Clinton, per descrivere la foto pubblicata sul suo profilo Instagram durante le primarie in Nevada

Avrà anche sbagliato vestiti, ma Hillary Clinton di sicuro non ha sbagliato strategia. Almeno per ora. Lo dicono i risultati delle primarie in Nevada, del 20 febbraio scorso: Clinton ha battuto l’avversario Bernie Sanders. Certo, l’ha battuto di poco, ma rimane in testa. Lo stacco fra i due non è abissale, ma basta: 52,2% per Hillary, 47,8% per Bernie.

L’ex Segretario di Stato torna così ad essere la favorita per la corsa al titolo di Presidente, fra la compagine democratica. Clinton aveva vinto in Iowa, ma per poco, e aveva perso in New Hampshire. La nuova vittoria le restituisce coraggio, anche perché quello del Nevada è un elettorato difficile da conquistare. Erano molti i latinos, gli ispanici, che nella Clinton avevano visto spesso una politica di prima classe, lontana dalle esigenze degli ultimi e più vicina ai salotti politici. Si sono, in parte, ricreduti: mentre Hillary parlava dal palco nelle ore prima del voto, svettavano tra la folla cartelli che recitavano “I latinos sono con Hillary“. E a urne chiuse, Clinton ha voluto ringraziare proprio loro: “È la vostra di vittoria”, ha detto.

Si è congratulato con Hillary, per questa vittoria, anche lo sfidante. Ma il senatore del Vermont ha voluto fare una precisazione: ha ricordato che “solo cinque settimane fa,  nel Nevada eravamo indietro di 25 punti percentuali. Eravamo indietro anche nell’Iowa e nel New Hampshire”. E poi sappiamo come è andata.

Sul versante repubblicano, dove le primarie si sono tenute in South Carolina, a trionfare è Donald Trump. Il magnate americano non solo ha sorpassato gli avversari, e di molto, ma ne ha anche visto cadere uno: Jeb Bush. Il rampollo si è ritirato dopo un deludente quarto posto. Secondo Marco Rubio che si dimostra in rimonta su Ted Cruz nel duello per il titolo di “migliore sfidante”.

La sfida decisiva, in entrambi gli schieramenti, si giocherà il primo marzo, quando nel Super Tuesday – come chiamano gli americani questo giorno – si voterà in 15 Stati. Intanto, per non perdervi nessuno degli appuntamenti delle primarie americane, potete trovare il calendario delle votazioni, elaborato da La Repubblica, a questo link.

Le città-zoo, qui abitano gli animali “immaginari” di Cesnakevicius

Uno scatto della raccolta The Zoo, realizzata dal fotografo lituano x nelle città di Amsterdam, Londra, Parigi e Berlino

Uno scatto della raccolta The Zoo, realizzata dal fotografo lituano Ceslovas Cesnakevicius nelle città di Amsterdam, Londra, Parigi e Berlino

Amsterdam e Londra, visitate a distanza di pochi giorni, possono fare uno strano effetto. O almeno, possono far nascere strane idee, come quelle che sono venute al fotografo lituano Ceslovas Cesnakevicius. Nel 2015, dopo la visita alle due città, il fotografo ha deciso di ritrarle come se fossero degli zoo. Il perché? Persone di tutti i tipi, di tutte le etnie ci vivono. Così Cesnakevicius, che è cresciuto sotto al regime sovietico, ha dato il via al suo progetto: The Zoo. Se le città sono un melting pot di razze, allora perché non inserire con fotomontaggi  anche degli animali fra le loro strade? The Zoo è questo, un accostamento azzardato quanto efficace, realizzato attraverso la fotografia. E non sono state coinvolte solo Londra e Amsterdam, ma anche le metropoli di Parigi, Barcellona e Berlino.

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L’obiettivo: lanciare un messaggio di tolleranza globale con la speranza che i giovani non crescano mai con l’odio e la diffidenza per il diverso. Ma che si aprano, curiosi, a tutto ciò che di strano, di particolare, li circonda.

Qui una gallery con le immagini del progetto

World Press Photo 2016, i maestri della fotografia

Confine tra Ungheria e Serbia, 28 agosto 2015. La foto, scattata dal fotografo Warren Richardson, ha vinto il World Press Photo 2016.

Confine tra Ungheria e Serbia, 28 agosto 2015. La foto, scattata dal fotografo Warren Richardson, ha vinto il World Press Photo 2016.

Un padre e il suo bambino, appena nato. A dividerli un filo spinato, quello che corre lungo il confine tra Ungheria e Serbia, da mesi sulla rotta dei migranti e dei profughi che arrivano in Europa. Fra le ombre e i giochi di bianco e nero, si distingue il padre che passa, attraverso un buco nel filo spinato, il neonato dall’altra parte.  Lì ci sono due braccia che si tendono per prendere il piccolo. Lo scatto si chiama “‘Speranza di una nuova vita” ed è stato realizzato dal fotografo australiano Warren Richardson, lo scorso agosto. Per immortalare la scena, Richardson si è servito solo della luce della luna, alle 3 del mattino. Impensabile usare il flash, le guardie di confine se ne sarebbero accorte e avrebbero fermato i profughi.  Da oggi, 18 febbraio, questa fotografia entra nella storia e diventa la regina del World Press Photo 2016, è la migliore immagine dell’anno.

“Erano circa le tre del mattino quando ho scattato la foto e non potei utilizzare il flash perchè la polizia poteva vedere quella gente. Scattai al chiaror della luna”, racconta Richardson che con i profughi ha vissuto per cinque giorni, prima di riuscire a raggiungere il suo obiettivo: uno scatto che racchiudesse tutto il senso della precarietà delle migrazioni, tema quanto mai attuale in questo momento.

Al secondo posto – nella categoria Spot News – c’è la foto del francese Corentin Fohlen. Al centro della scena il fotografo ha messo le proteste di Parigi dopo gli attacchi alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, nel gennaio 2015.

Secondo premio - Spot news. "March Against Terrorism in Paris" (Marcia contro il terrorismo a Parigi)

Secondo premio – Spot News.
“March Against Terrorism in Paris” (Marcia contro il terrorismo a Parigi)

Tante le foto degne di nota, tanti i partecipanti: 5.775 da 128 nazioni, un record. E tante anche le categorie: da People– quella delle persone – dove sono state ricordate anche le vittime degli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, a quella dei temi contemporanei, fino a quella della natura o degli sport. In una miriade di colori e tecniche diverse, che trascinano con loro attualità e arte, ecco (nella gallery) quelle che per Guardafuori sono da non farsi sfuggire

 

 

 

«Le prigioni a cielo aperto» di Buenos Aires – Il fotoreportage di Yarin del Vecchio

Una ragazza della Villa21, uno dei quartieri più degradati e pericolosi di Buenos Aires. Il fotografo italiano Yarin del Vecchio ha trascorso diversi giorni tra i ragazzi che vivono lì e ha realizzato il fotoreportage Los llaman "calleros".

Una ragazza della Villa21, uno dei quartieri più degradati e pericolosi di Buenos Aires. Il fotografo italiano Yarin del Vecchio ha trascorso diversi giorni tra i ragazzi che vivono lì e ha realizzato il fotoreportage Los llaman “calleros”. Guardafuori l’ha intervistato.

«Sono quei luoghi dove se ci nasci, difficilmente poi riesci ad uscirci». Quando il fotografo Yarin del Vecchio parla delle villa di Buenos Aires, la memoria corre veloce alla droga consumata per le strade dai ragazzini, ai crimini, alle guerre fra bande. Questi quartieri, per decenni dimenticati dall’amministrazione, «sono prigioni a cielo aperto», la piaga nel cuore pulsante della capitale argentina. Qui, scappare dalla gabbia di delinquenza che opprime tutto, è quasi impossibile. Come è quasi impossibile penetrare fra le strade per raccontare cosa succede. Del Vecchio ci è riuscito, e dalla sua esperienza è nato il reportage Los lama calleros, un racconto per immagini sui giovani della Villa21.

«L’idea di realizzare il reportage è nata verso settembre. Da due anni seguo come allievo un fotoreporter italiano, Valerio Bispuri, che a dicembre ha tenuto un workshop fotografico proprio a Buenos Aires. Lo scopo era quello di trovare una storia da raccontare in otto giorni. Io in genere lavoro su progetti a lungo termine, incentrati su temi sociali, quindi ho pensato a un progetto che potesse essere iniziato li e potesse rimanere aperto per il futuro», racconta il fotografo. Ci è riuscito, non senza difficoltà.
«Nella villa21 andavo ogni giorno dalla mattina fino alle 15/16, oltre sarebbe stato troppo rischioso. Sono potuto entrare nel quartiere solo con due accompagnatori, Alejandra e Claudio, abitanti della villa, che stavano sempre con me», ricorda. Due guide, per un viaggio nel mondo dell’omertà. Sono molti infatti quelli che fanno finta di nulla, che non denunciano i crimini dei narcos (che, di fatto, controllano tutta la zona) e che tengono d’occhio i nuovi arrivati. «Quello che mi ha colpito di più sono state le esperienze dei ragazzi, vedere gli effetti del paco (la droga più pericolosa d’Argentina: un misto di foglie di coca, veleno per topi e cherosene)  e della vita che conducono. In soli quattro giorni in cui sono stato lì, due dei ragazzi che si vedono nelle foto sono stati accoltellati: lì è la normalità. Quando ne parli con loro sembra che ti stiano parlando di graffi di gatto. Vedere ragazzi anche di 15,16 anni, ma a volte anche più piccoli, distrutti a livello cerebrale a causa del paco, vedere le loro mani sporche e gonfie a causa del loro cercare nella spazzatura oggetti da rivendere per poi comprare la droga, vederli senza scarpe e magliette perché le vendono per drogarsi. Vedere i loro nomi scritti sul muro sopra il marciapiede stile citofono, guardarli negli occhi e leggere tutta l’umanità e la fragilità che comunque questi ragazzi hanno dentro, queste sono le esperienze forti che mi hanno segnato più di tatuaggi sulla pelle».
Riuscire a immortalare scene di vita quotidiana, dove il paco fa da sottofondo a tutto ciò che succede, ha richiesto grande calma e pazienza. «Non è stato semplice – racconta il fotografo – , spesso la macchina fotografica non la puoi tirare fuori per strada. In realtà quasi mai. Scattare ai ragazzi è stato difficile a livello di confidenza, nei miei scatti cerco di trasmettere profondità, di far trapelare quelle che sono le mie emozioni e le emozioni dei soggetti, sempre però raccontando la realtà».  Con i ragazzi della villa quindi, Del Vecchio ha dovuto instaurare una comunicazione più gestuale e simbolica che orale, facendo capire loro i motivi per cui voleva fotografarli. 
Con alcuni di questi giovani , il fotoreporter è rimasto in contatto. «Sono diventati miei amici», spiega, quasi come se fosse una cosa incredibile. Il fatto è che le persone delle villa sono molto emarginate a Buenos Aires, «sono rifiuti lasciati nella discarica. Rifiuti umani però».  Lo sa bene Padre Charly che qui, arroccato in queste stradine dove in pochi osano addentrarsi, ha aperto il centro Los “Niños de Belen”, per aiutare i ragazzi di strada che consumano ancora paco. Ma non bastava, così Pade Cahrly ha dato il via anche l’”Hogar de Cristo San Alberto Hurtado“, un’altra sede, quella principale, 100 metri fuori dai confini della villa per aiutare chi dal paco sta provando a disintossicarsi. La missione gliel’ha affidata Papa Francesco che, quando era ancora arcivescovo di Bueno Aires, spesso andava in questa villa per ascoltare e aiutare le persone.
Qui una gallery con altre immagini del reportage

LUNEDÌ 15/02 – I segni su un volto da Presidente

A sinistra,il Presidente degli Usa Barack Obama nel 2008, prima di vincere le elezioni. A destra, Obama nel 2016, a pochi mesi dalla fine del suo secondo mandato.

A sinistra,il Presidente degli Usa Barack Obama nel 2008, prima di vincere le elezioni. A destra, Obama nel 2016, a pochi mesi dalla fine del suo secondo mandato.

Nel caso del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, si può dire: un’immagine – anzi due- vale più di mille parole. Basta confrontare le foto che lo ritraevano nel 2008, con quelle degli anni trascorsi come presidente. A un volto disteso e rilassato degli inizi della carriera politica, se ne affianca uno segnato dalle rughe, dalle occhiaia e dalla stanchezza. “Il potere logora chi ce l’ha”, recita un detto. E forse Obama ne è la prova.

Del resto, quelli del primo presidente di colore degli Stati Uniti, non sono stati due mandati facili. È vero, la politica americana con lui è diventata inclusiva: basta guerre dispendiose, e sanguinose in Medio Oriente e graduale (ma non senza problemi) ritiro delle truppe da Afghanistan e Iraq. Ma l’ America di Obama si è anche ripiegata su se stessa, ha smesso i panni del “leader mondiale” che prende le decisioni più importanti e si fa seguire dagli alleati. Ha cercato nuovi amici, come l’Iran e il Sud America, in particolare Cuba. Ha preso più volte le distanze dall’alleato storico, Israele. Ha messo in campo la sua migliore diplomazia. E per questo Obama è stato spesso accusato di essere un temporeggiatore, un uomo che all’azione preferisce la strategia. Come nella lotta all’Isis, dove ai bombardamenti non sono mai seguiti massicci interventi di terra dei soldati della coalizione guidata dagli Usa.

Sembra quasi che Mr. President si sia concentrato di più sui confini, che non su quello che accadeva fuori. In casa ha dato nuovo slancio all’ economia, dopo la crisi del 2008, e ha risollevato i livelli di impiego e di istruzione. Ma l’America è fragile e intere aree si trovano allo sbando. È qui che scoppiano rivolte, battaglie razziali. Si ricordino gli scontri di Ferguson, tra poliziotti – uno di loro sparò al giovane afroamericano Brown – e comunità nera. Con le strade in fiamme, le auto bruciate e cartelloni che recitavano scritte come “Ho paura di essere nero”. Succedeva negli Usa di un presidente di colore, eppure quelle proteste proseguirono per settimane, fino a estendersi anche a Los Angeles.

Il volto scavato del presidente, arriva anche da un’impresa che solo lui, fino ad ora, aveva tentato: riformare il sistema sanitario. Con l’Obama Care – questo il nome della legge elaborata da Obama e dal suo staff nel 2010 – si prevede di far entrare sempre più persone nel sistema sanitario nazionale, senza che queste debbano più rivolgersi ai privati. I numeri parlavano già all’inizio di un obiettivo ambizioso: 32 milioni di cittadini in più tutelati dal servizio medico. Con una considerevole diminuzione del peso che le spese mediche avevano sul pil fino al 2010, cioè del 15% totale. Una lotta contro il Congresso questa, che però è stata vinta dai Democratici che hanno portato avanti la riforma. Non ha avuto invece lo stesso risultato la battaglia sulla detenzione delle armi. Dopo le stragi nelle scuole e a San Bernardino, dove lupi solitari hanno aperto il fuoco sulla folla, l’America si è riscoperta fragile. Chiunque può acquistare un’arma, chiunque può essere pericoloso. Obama ha lottato con il Congresso per scardinare una mentalità dell’autodifesa radicata da centinaia di anni in America. E ha lottato contro le lobby delle armi, ricche e potenti. Alla fine, con un atto di forza ha scavalcato proprio il Congresso e ha dato il via a una stretta sui controlli degli acquirenti e sulla loro salute mentale, a partire dal gennaio 2016. “La lobby delle armi può forse tenere in ostaggio il Congresso, ma non può tenere in ostaggio l’America. Non possiamo accettare queste carneficine nelle nostre comunità”, ha twittato il presidente in quell’occasione.

E poi le infinite responsabilità, prima su tutte quella di restituire a chiunque sarà il suo successore, un’America molto più spostata a sinistra. Per questo, nei primi segnali che arrivano dalle Primarie (si è votato in Iowa e New Hampshire) non stupisce che il democratico rivoluzionario Bill Sanders tenga testa a un’avversaria del calibro di Hillary Clinton, perché lui è quell'”uomo di sinistra” che tanto gli Usa hanno imparato ad apprezzare, o a cui comunque si sono avvicinati negli ultimi anni.

L’avventura di Obama alla casa Bianca si conclude il 20 gennaio 2017, da allora sì, lui sarà un ex presidente. Forse la sua espressione tornerà a distendersi, forse le rughe saranno meno fitte, le borse sotto agli occhi meno sporgenti. Ma il segno di otto lunghi anni da “uomo più potente del mondo” gli resterà cucito addosso, e non si sa con quali conseguenze. Lui però ha già chiaro il suo piano: si occuperà della Obama Foundation, creata nel 2014 con la moglie Michelle, che ha sede a Chicago. Ma la residenza degli Obama rimarrà a Washington, almeno fino a quando Sasha, la figlia minore, che ora ha 13 anni, avrà finito il liceo.

A lezione di invisibilità da Liu Bolin, il “camaleonte” della fotografia

Una foto della serie Hiding in the city, dell'artista cinese Liu Bolin che si mimetizza con lo sfondo delle sue opere.

Una foto della serie Hiding in the city, dell’artista cinese Liu Bolin che si mimetizza con lo sfondo delle sue opere.

Nascosto fra i mattoni, i girasoli, le piastrelle. L’artista cinese Liu Bolin è un “camaleonte”. Adora farsi chiamare così. Dategli una superficie, qualsiasi, e lui ci si adatterà, scomparendovi. L’idea di fondersi con il contesto che lo circonda, gli è venuta nel 2006 quando il quartiere di Pechino Suojia Village venne smantellato dalle autorità lasciando un solco nella città, una ferita aperta nell’immensa giungla di cemento. Da qui la necessità, per l’artista, di interrogarsi sul rapporto natura-uomo nell’età moderna in una ricerca spasmodica di quel contatto fra queste due realtà che, alcune volte, sembra impossibile.

Il punto di contatto Bolin, l’ha trovato nell’arte. Grazie a giochi di vestiti, colori e photo editing riesce a camuffarsi tanto da diventare l’uomo che “sparisce sullo sfondo”, proprio come fanno i camaleonti. Si porta dietro una valigia che contiene solo pennelli e vernici. Pesa tanto, forse troppo: 30 chili.

Da quel lontano giorno del 2006, l’artista ha iniziato a viaggiare in tutto il mondo con la sua borsa di colori, e a confondersi con case, pareti con graffiti, edifici, giardini e ponti. In ogni fotografia, si nota la grande conoscenza dell’arte che Bolin ha ricavato dai suoi studi alla prestigiosa Accademia Centrale d’Arte Applicata, come allievo del famoso Sui Jianguo, suo mentore agli inizi della carriera.

Anni di viaggi e di studi hanno portato alla realizzazione del suo progetto più importante: Hiding in the city (nascondendosi nella città, in italiano). Le sue foto e le sculture sono state esposte nel più importante festival di fotografia contemporanea, Les Recontres d’Arles. Tanti, anzi tantissimi, i riconoscimenti internazionali, per la sua visione della modernità. Ma più che un semplice punto di vista artistico, quella di Bolin è una denuncia, lo dice lui stesso: “È un gesto di denuncia. Cos’è oggi lo sviluppo dell’essere umano, e dove porta? L’uomo sta scomparendo nel suo ambiente. La tecnologia ha portato molto sviluppo materiale, ma per restare umani cosa si deve fare? Io non voglio perdermi in questo labirinto, perciò scelgo questa forma di difesa”.